Grisignano
di Zocco, biblioteca comunale, 12 Marzo 2002
Domanda:
ci sono dei ruoli nella rete?
In
ogni gruppo sociale ci sono dei ruoli, ci sono ruoli
gerarchici verticali o orizzontali, rigidi o elastici;
per esempio se in un gruppo una stessa persona ha lo
stesso ruolo per dieci anni quel gruppo allora non è
una rete. Io penso che si può sapere se un’organizzazione
è vivente quando è capace di moltiplicare
i ruoli, di inventare sempre nuovi ruoli.
Se qualcuno cerca di avere un ruolo centrale è
un’organizzazione chiusa e che rischia di morire.
Ci sono invece una molteplicità di esseri centrali:
lo spirito dell’organizzazione in rete esiste
se c’è una molteplicità di centri,
ovvero una molteplicità di modalità di
essere centrali.
E’ un’organizzazione in rete se è
un’organizzazione in cui ogni persona, ogni gruppo
è centralmente interessante là dove è
centralmente interessato. La rete sarà vivente
se tutte le persone della rete possono dire che tu sei
importante, tu sei centrale rispetto al tuo interesse.
Nessuno può prendere il tuo posto, nessuno può
avere il tuo stesso ruolo; il tuo ruolo è l’incontro
tra te e l’organizzazione, fra te e gli altri.
Quello che ho appena detto è tra le cose più
difficili da realizzare nella rete di cui faccio parte,
e nella rete di reti; bisogna sempre lavorare su questo
punto perchè fin da piccoli abbiamo imparato
la competizione, dunque il ruolo dell’altro ci
sembra più riconosciuto, ci fa voglia e quindi
vogliamo il ruolo dell’altro, invece di ricoprire
il ruolo che corrisponde alla bellezza interiore di
ciascuno; in questo senso non possono non esserci ruoli.
Qualcuno avrà un ruolo di mediatore, di testimone.
Ognuno deve poter cambiare ruolo; è un’organizzazione
democratica se effettivamente ognuno ha un ruolo, non
ci può essere organizzazione dove ci sono animatori
e utenti: non vedo perché io dovrei fare vivere
gli altri, è più giusto che ci facciamo
vivere tutti. Questo è molto difficile, molto
complesso da spiegare. Io penso che la cooperazione
non l’abbiamo imparata e non sappiamo che il saper
cooperare è un sapere che si può imparare,
non siamo definitivamente votati alla competizione.
Quando apprendiamo dei saperi, delle conoscenze impariamo
anche i sistemi nei quali noi siamo. Nella scuola sfortunatamente
i bambini e i ragazzi imparano di più la competizione
che la cooperazione; si impara ad avere ragione sugli
altri, piuttosto che ascoltare se anche l’altro
ha un po’ ragione, non si impara ad aver voglia
che l’altro riesca, si impara che ci sono dei
primi, ci insegnano che è normale che dopo ci
siano delle élites, si impara che ci sono degli
ultimi, quelli che non servono a niente, che non possono
portare niente, dunque essi imparano che non potranno
mai portare niente alla società, e imparano che
la società non può aspettarsi niente da
loro. Imparano a non essere aspettati da nessuna parte
e imparano che è normale così; e gli altri
in alto non sanno che possono arricchirsi da quelli
che hanno messo in basso. Altra cosa: non si impara
che è molto più efficace imparare cooperando
piuttosto che da soli e si impara che qualcuno non avrà
alcun ruolo.
Domanda:
Non siamo noi a decidere di avere un ruolo ma c’è
chi ci assegna un ruolo…
Questo
che è difficile, complicato, perché non
può essere solo spontaneo ma bisogna organizzare
delle situazioni: un educatore, un insegnante non deve
cercare di agire perché vuole trasformare l’altro,
trattarlo come un oggetto, ma può trasformare
se stesso e trasformare le situazioni; creare le situazioni
che fanno emergere il meglio dell’ essere umano.
Non so quello chi sarei stata se avessi avuto venti
anni nel 1939, perchè in quell’epoca ci
sono state delle situazioni che hanno fatto emergere
il peggio in certi esseri umani; la rete permette di
far emergere il meglio di ciascuno e il meglio delle
situazioni. Il principio di base della rete è
che siamo tutti, ma proprio tutti sapienti e ignoranti;
sappiamo tutti tante cose ma siamo tutti ignoranti di
tante cose, e della stessa cosa siamo sapienti e ignoranti;
siamo sapienti e ignoranti ma non delle stesse cose
e siamo anche spesso ignoranti dei nostri saperi. Abbiamo
bisogno dell’altro per capire quello che sappiamo,
noi siamo ignoranti delle nostre ignoranze: più
impariamo e più scopriamo le nostre ignoranze.
Al contrario meno abbiamo imparato, meno sappiamo di
sapere e meno possiamo immaginare le nostre ignoranze;
abbiamo fatto dell’ignoranza un’occasione
di umiliazione e di dominazione, però io dico
che si può fare dell’ignoranza una ricchezza
a condizione che le persone siano tutte e due le cose,
cioè sapienti e ignoranti insieme. Dire insieme
“io so e non so” è una situazione
di parità: questa situazione di parità
è possibile solo perché siamo diversi,
altrimenti si potrebbe paragonare l’uno all’altro.
Questa constatazione sembra ovvia, ma evidenzia ciò
che molti hanno dimenticato e cioè che i saperi
sono stati molto gerarchizzati. Se siamo tutti sapienti
e ignoranti possiamo tutti costituirci come offerenti
o richiedenti di saperi; si può cambiare la parola,
si può parlare di proporre anziché di
offrire e di cercare anziché chiedere se le parole
possono creare problemi. La cosa interessante è
che si può chiedere solo un sapere che si cerca:
il problema della scuola è che si danno agli
allievi delle risposte a domande che non hanno fatto
e che a scuola chi fa le domande non è chi non
sa, ma chi sa. Quindi bisogna cambiare la disposizione
interiore dell’allievo. Ho lavorato quindici anni
come insegnante fino al 1976 e la rete è nata
partendo dalla mia classe: c’era appeso al muro
tutto il programma scritto non con le parole dell’istituzione,
ma con le parole che i bambini potevano capire e i bambini
guardavano … e cambiava del tutto l’atteggiamento
quando i bambini dicevano: “Voglio imparare la
divisione con due numeri”. Erano sulla strada
di una richiesta di saperi. Se scegliamo di essere offerenti
o richiedenti a livello dei ruoli, diventiamo allo stesso
tempo insegnanti e allievi ma non delle stesse cose
e non uno contro l’altro. Dentro a un gruppo,
una società, un collettivo insegnando il proprio
sapere ognuno scopre che egli stesso è interessante
per il collettivo e ognuno sa che chiedendo può
ricevere delle risorse dal collettivo: per me è
un fondamento della società che ognuno porti
il suo contributo positivo alla società in questo
caso con il suo sapere e ognuno può contare sulla
società per trovare le risorse di cui ha bisogno.
I due ruoli di base insieme non possono garantire che
non si riprodurranno mai situazioni di dominio dell’uno
sull’altro. La storia del ventesimo secolo ha
mostrato in modo terribile che quelli che erano oppressi
sono diventati oppressori. Io penso che il fatto di
avere due ruoli nello stesso tempo sia importante: quando
nella rete ogni persona è nello stesso tempo
offerente e richiedente succede che ognuno mette nel
suo ruolo anche l’esperienza dell’altro
ruolo e anche quello con cui lavora ha pure lui l’esperienza
dell’altro ruolo. C’è un dialogo
interiore: quando sono insegnante insegno e tengo in
memoria le mie reazioni e le vostre per quando io stesso
sarò allievo. Per esempio se tu Franca insegni
italiano e quello che facciamo insieme mi piace, lo
tengo in memoria come esperienza positiva che mi servirà;
se non mi piace, lo tengo come esperienza positiva per
stare attenta e quando sarò nell’altro
ruolo oserò dirti : ”Non è così
che voglio imparare, so che si può imparare in
un altro modo”. In più il terzo ruolo viene
proposto a tutti: è il ruolo di organizzare il
sistema. Supponiamo che Didier voglia imparare la psicologia
cognitiva: fa la sua richiesta a Chiara che accetta
di insegnare, cioè di ‘passare dei segni’,
e Mariano, che nella rete è offerente e richiedente,
organizza la messa in relazione ricoprendo il ruolo
di garantire che ognuno ascolterà e sarà
ascoltato a livello di competenza nel modo di lavorare
insieme. Se ogni persona della rete può avere
queste esperienze di richiedere, offrire e di mettere
in relazione allora ci sono maggiori garanzie per evitare
situazioni di dominio.
Domanda:
Qual è la prospettiva per il prossimo futuro?
Una strada come quella degli scambi di saperi è
tanto più necessaria ora che le nuove tecnologie
si sviluppano: si dimentica che l’apprendimento
è anche una relazione e che internet è
un favoloso luogo di informazione, ma che può
essere un’occasione di formazione solo per chi
ha moltissima esperienza di autoformazione. Anch’io
lavoro molto in Internet, ma si comincia a farne un
mito, si sa che per imparare a un certo punto c’è
sempre bisogno di lavorare con qualcuno per scoprire
le proprie capacità di parlare e per fare della
reciprocità che ha cinque dimensioni: la prima
è quella di cui abbiamo già parlato cioè
la parità che è una delle necessità
di uno stato democratico. In democrazia ogni persona
è un voto e ci sono sempre più persone
in democrazia che sono senza voce-voto.
Per imparare bisogna essere in situazione di parità
umana. I ricordi di formazione che abbiamo e i momenti
in cui abbiamo imparato bene spesso erano situazioni
in cui c’era rispetto, soprattutto quando eravamo
bambini. Per esempio se la maestra ci credeva capaci
di essere bravi in matematica lo si diventava davvero:
parità umana vuol dire mutuo rispetto. Ciò
che si dice all’altro posso dirlo a me stesso:
qui adesso siamo in relazione di parità, non
è vero? Quello che vi dico, se vi interessa,
vi fa pensare da voi stessi nella vostra testa, non
pensate con le mie parole ma con le vostre. Sto per
dire delle parole grosse: la parità permette
che una parola interpersonale si trasformi in parola
intrapersonale. Imparare dei saperi, sapere una parola
è prendere la parola dell’altro e riformularla
a se stesso.
Questa reciprocità è necessaria per imparare
anche perché questa reciprocità non si
può calcolare; io posso insegnare a qualcuno
la tessitura per tre anni o tre mesi, il tempo non è
quantificabile, non si può quantificare sempre
tutto, anche il dono è importante e la reciprocità
è un cammino pedagogico.
Quando si chiede a un bambino di essere tutore di un
altro bambino, è il tutore che progredisce di
più nell’imparare. Tutti gli insegnanti
che ho incontrato dicono che il bambino tutore a progredire
maggiormente nella materia dove è tutore: se
ciò è vero perché tutti i bambini
non sono tutori in tutte le materie? Se avete intenzione
di insegnare, di essere offerenti ci sono tre momenti
in cui imparerete:- prima di incontrare l’altra
persona perché dovete ritornare sul vostro sapere,
dovete riattivare quel sapere, rifare la strada che
avete fatto per imparare ma al contrario, cioè
integrando quello che avete imparato da quel momento;
- secondo, quando insegnate all’altro perché
dovete riformulare, precisare, esplicitare, razionalizzare
il vostro sapere; - terzo, quando gli altri vi faranno
delle domande. La domanda dell’altro vi fa vedere
il vostro sapere da un altro punto di vista, vi richiede
di precisare una formula così vi accorgete delle
vostre ignoranze quando non sapete rispondere.
Un esempio concreto. Mia sorella che insegna il francese
e una sua collega hanno sviluppato nella loro scuola
delle reti di scambio di saperi: Jaqueline, prof. di
francese, chiede nella rete lo spagnolo (non ha mai
studiato lo spagnolo e vuole impararlo) e una delle
sue allieve offre lo spagnolo nella rete. Si vedono
fuori della scuola, l’allieva offre lo spagnolo
alla sua professoressa e un giorno la prof dice all’allieva
Maribela: “Non capisco gli accenti ” e l’allieva
dice: “ Proprio quello che temevo! Non li so neppure
io! Vado a informarmi e vi rispondo tra una settimana”.
Nel frattempo è andata a trovare il suo insegnante
di spagnolo e a chiedergli: “Voglio imparare bene
gli accenti perché devo insegnarli”.
Quella volta ha ascoltato in un altro modo, prima non
era mai riuscita ad imparare gli accenti e così
la volta dopo le ha dato la risposta giusta. L’allieva
ha chiesto all’insegnante di francese a cui insegnava
lo spagnolo: ”Ma succede anche a voi di non saper
rispondere a domande poste gli allievi?” perché
non gli sembrava possibile e l’insegnante ha risposto:
”Certo!” vale a dire che anche il professore
a volte è ignorante nella materia in cui insegna.
L’allieva chiede: ” Ma allora come fate?”
e la prof “Proprio come voi, ne riparliamo la
prossima volta e nel frattempo vado a imparare”.
Credo che la reciprocità sia una strada pedagogica
efficace.
Altre due insegnanti hanno organizzato una rete nella
loro scuola, costituendo l’équipe di animazione
della rete formata da insegnanti, genitori e allievi;
hanno trasformato anche il corso di spagnolo per i ragazzi
di 13-14 anni. La grammatica è noiosa e si sono
dette: “Intanto possiamo cambiare la maniera di
insegnarla perché tanto non si può far
peggio di così”. I ragazzi hanno chiesto
di avere due ore di grammatica di seguito; contemporaneamente
in due classi parallele le insegnanti hanno aperto le
porte tra le due classi, hanno messo gli allievi insieme
e hanno fatto scrivere a tutti gli allievi che cosa
sapevano insegnare e che cosa volevano imparare.
Hanno fatto poi dei gruppi e hanno organizzato la messa
in relazione in modo che ognuno ascoltasse l’altro,
perchè quello che offre deve incominciare con
l’ascoltare quello che l’altro richiede,
al contrario dell’abitudine scolastica. Dopo due
ore quando è suonato il campanello i ragazzi
hanno detto: ”Come…già… così
presto?”. Non serve capire perché la grammatica
interessa: sono state organizzate insieme le due classi
perché è più facile che due professori
gestiscano due classi piuttosto che un insegnante da
solo organizzi un unico corso.
Ci sono esempi nella scuola anche per i bambini della
scuola elementare: Valerie usa una pedagogia multipla
con momenti di pedagogia differenziata individualmente,
momenti di lavoro di gruppo e momenti di scambi reciproci
di saperi e in tutti gli altri momenti i bambini imparano
a scrivere e a nominare i propri saperi. I professori
sono costretti a valutare, ma prima delle valutazioni
Valerie organizza un ‘mercatino dei saperi’
e i bambini sanno che hanno ancora la possibilità
di imparare attraverso degli scambi. In questo modo
ogni bambino ha la possibilità di non fallire
la prova di verifica. In altri ambiti sempre all’interno
della scuola ho degli esempi molto interessanti. Una
ispettrice delle scuole elementari, che come tale da
noi ha anche la funzione di formatore, tre volte all’anno
deve organizzare conferenze pedagogiche cui gli insegnanti
sono costretti ad andare (è una regola che non
ha senso) anche se si rendono conto che non servono
a niente.Questa ispettrice che conosce le reti propone
agli insegnanti di fare richieste e offerte sul modo
di insegnare e per ottenere questo deve scuotere molto
gli insegnanti perché di solito loro non parlano
mai di quello che fanno.
Quando riescono bene non lo dicono perché hanno
paura che si dica che sono secchioni; quando sono in
difficoltà non lo dicono perchè hanno
paura di essere svalutati e siccome si parla spesso
di violenza, di fallimento della scuola e spesso succede
che si accusano gli insegnanti, loro stessi si svalutano.
La direttrice ha cominciato a dire : ”Tutti voi
riuscite bene in tante cose” e ha cercato di far
esprimere loro quello che sapevano come per esempio
spiegare bene un argomento di grammatica, l’educazione
all’ambiente ecc. Dopo ha chiesto quello che desideravano
imparare o che sapevano fare meglio; ha soppresso le
conferenze pedagogiche e ha organizzato 350 insegnanti
in scambi reciproci di saperi. Un altro ispettore ha
fatto la stessa cosa e per dodici anni, adesso è
in pensione, è stato responsabile di 39 scuole.
Nel 1989 (l’allora ministro dell’educazione
nazionale aveva fatto una legge perchè si facessero
dei progetti nella scuola) si trovava davanti a questa
situazione di difficoltà: nella scuola tutto
quello che viene dall’alto si fa finta di farlo
e quelli che sono in alto non ascoltano mai quelli che
sono giù in basso.
L’ispettore aveva una legge da far rispettare
così ha chiesto che ogni scuola, prima di fare
il progetto scolastico, riflettesse su quello che gli
insegnanti sapevano fare in quella scuola e che essi
stessi costruissero un progetto che si basasse su ciò
che si sapeva fare bene in quella scuola. Poi ha detto:
”Per realizzare questo progetto che cosa non sapete
fare?” Sono nati così gruppi pedagogici
di una scuola che facevano scambi con altre scuole;
una scuola, che faceva funzionare un centro di documentazione,
offriva di insegnare come si fa un centro di documentazione
e lì si è sperimentato che quando si offre
il proprio sapere non si perde nulla, anzi offrendolo
ci si arricchisce.
Purtroppo abbiamo tutti dei conti in sospeso con la
scuola e abbiamo delle difficoltà con la scuola,
ma non bisognerebbe cercare di cambiare le persone,
ci sono anche delle buone relazioni, non solo dei problemi;
bisognerebbe considerare le persone come delle possibilità,
l’altro è una risorsa, avendo la fortuna
e l’opportunità di incontrare una persona.
Ho fatto esperienza della rete nella scuola con tre
classi di allievi che ho tenuto tre anni di seguito
e con allievi che ho tenuto per due anni di seguito;
quando ho scritto il mio primo libro “L’école
eclatèe” mi sono detta: “Questa avventura
non l’ho compiuta solo io, gli allievi hanno avuto
altrettanto idee”. Per esempio durante una settimana
bianca gli allievi hanno avuto l’idea di non fare
come sempre una specie di scheda ma di andare direttamente
dagli agricoltori a chiedere che spiegassero il loro
lavoro: hanno chiesto loro di venire in classe a spiegare
e, visto che un contadino ha accettato, hanno chiesto
a tutti gli altri del paese di venire in classe a insegnare
quello che facevano. I bambini hanno raccontato e scritto
tutto quello che hanno imparato nella settimana bianca
per realizzare in seguito una mostra in città.
Sono tornata pensando a due allievi che non riuscivano
a sbloccarsi in matematica, così durante l’orario
scolastico li ho mandati dal libraio a comprare i libri
e a prendere moneta. E’ incominciato in questa
maniera e poi gli allievi sono andati in giro a fare
delle esperienze da professionisti il cui lavoro ritenevano
interessante. I bambini scrivevano molto perché
avevano molto da dire e raccontavano tutto quello che
facevano. Dopo qualche anno ho scritto ai miei ex-allievi
per avere loro notizie: una ventina di lettere sono
ritornate perché avevano cambiato indirizzo,
ma non ce n’è stato uno che non abbia risposto
cinque anni, sette e nove anni dopo la prima classe.
Qualcuno è venuto anche con i figli e tutti quelli
che hanno ricevuto la lettera sono venuti a trovarmi;
li ho organizzati in piccoli gruppi per le interviste
che dopo ho messo nel libro. Vuol dire che qualcosa
è successo ma non dipendeva solo da me anche
se non voglio minimizzare il mio ruolo: è stato
realizzare una rete che funzionava in modo diverso una
rete di mutua riconoscenza. Il fatto che abitavo nello
stesso quartiere non era soltanto ricoprire un ruolo,
incontravo i genitori degli allievi e così cambiavano
anche le nostre relazioni. È bene avere dei ruoli,
alcuni ruoli sono protettori, non va bene però
mescolare i ruoli: ma sono anche una persona, non soltanto
un ruolo. Il ruolo può proteggere, può
fare da schermo tra sè e gli altri. Spesso si
tratta un allievo come un allievo e ci si dimentica
che è anche un bambino.
L’avviamento di questa avventura per me è
anche questione di carattere ed è legata a quello
che ho ricevuto dalla mia famiglia: le parole più
usate da mio padre in tutto quello che ha scritto sono
solidarietà e fratellanza. Personalmente sono
molto ipersensibile e ho vissuto la scuola come luogo
di umiliazione. Non voglio parlarne perché è
troppo personale, mi sentivo nello stesso modo anche
per gli altri e di conseguenza ho lavorato molto sull’umiliazione
e sulla dignità. Ho lavorato molto anche sull’apprendimento
perché ricordo le emozioni provate quando un
bambino che non capisce, non capisce e non capisce e
poi tutto d’un colpo capisce: sia il bambino che
l’insegnante avvertono contemporaneamente la stessa
emozione e per arrivare ad avere questa emozione vale
la pena di lavorare tanto, non so se siete d’accordo.
Non si può costruire senza speranza; la realtà
spesso non dà speranza, ci vuole una forte volontà
per vedere tutto quello che funziona, che va bene e
collegarlo. Nel 1971 ho avuto la fortuna di partecipare
ad un seminario con universitari che lavoravano intorno
al libro di Ivan Illich “Descolarizzare la società”:
sono andata a questo seminario perché mio marito
aveva visto l’annuncio sul giornale e durante
tutto il sabato e la domenica mattina non avevo capito
niente.
Quando non si capisce si pensa di essere stupidi e avevo
voglia di sparire sotto il tappeto, non dicevo niente
e quando qualcuno mi parlava diventavo tutta rossa.
A pranzo di domenica un mio vicino che conosceva mio
marito mi ha detto:” E tu che cosa fai?”.
Molto impressionata dagli altri ho detto :”Sono
istitutrice” e lui mi ha chiesto “Perché
sei qui?” “Perché ho letto il libro”.
Gli ho parlato molto delle mie esperienze e gli ho raccontato
della storia dell’idraulico e delle settimane
bianche poi lui si è alzato, ha fatto fare silenzio
e ha detto: ”Tutto quello di cui noi abbiamo parlato
in questo weekend lei lo fa nella sua classe allora
vi chiedo di ascoltarla” . Io pensavo che quel
che facevo fossero cose non proprio banali ma non così
sorprendenti, la loro sorpresa mi ha fatto vedere la
mia esperienza da un altro punto di vista. Io e mio
marito siamo partiti da questo seminario con la testa
in rivoluzione e per me ho ritrovato il filo rosso raccontando
tutto quello che era successo, tutte le cose riuscite,
e quando si ritrova questo filo rosso che collega le
esperienze che testimoniano del valore di quello che
abbiamo fatto, allora da lì si possono fare progetti.
Subito abbiamo scritto un articolo come fanno le bambine
nel cortile della ricreazione che dicono: ”Diciamo
che io sono una principessa e facciamo che tu sei un
principe” e così mio marito ed io: ”Diciamo
che tra le classi si potrebbe scambiare, facciamo che
tra scuole anche di diversi livelli si possano scambiare
dei saperi, facciamo che tra la scuola e il quartiere
si possono scambiare saperi, facciamo che la scuola
potrebbe essere aperta il sabato, la domenica perché
la gente venga a scambiare saperi, facciamo che possiamo
associare la biblioteca, i commercianti, gli assistenti
sociali, facciamo che un bambino che vuole imparare
giardinaggio possa farlo durante il tempo della scuola”.
Abbiamo scritto queste cose, le abbiamo mandate all’ispettore
chiedendo un appuntamento, ero convinta che non ci avrebbe
mai ricevuta, sicura che ci avrebbe detto che non l’aveva
mai ricevuta e invece ci ha detto: ”D’accordo”.
Abbiamo applicato al progetto dei criteri di rigore
a cui avevo avevo già pensato e che mi hanno
molto aiutato (mi ha aiutato molto il fatto che ero
conosciuta come un’insegnante molto rigorosa e
impegnata).
Attualmente, oltre ad essere responsabile pedagogica
del MRERS (Mouvement des Reseaux d’Echanges Reciproques
des Savoirs), faccio formazione all’università,
preparo gli studenti a una laurea e li aiuto a scoprire
il filo rosso che attraversa la loro storia e tutte
le riuscite che hanno vissuto per costruire il loro
progetto di ricerca. In ogni mestiere bisognerebbe cercare
gli avvenimenti importanti, come quando si torna a casa
e si dice alla propria moglie : ”Mi è successo
questo, te lo devo raccontare”. Non bisogna perdere
questi gioielli perché sono quelli che permettono
di costruire dei progetti.
trascrizione
a cura di APRIRSi
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